seminario Voce con Ian Magilton Roy Hart Theatre


“Vivo respirando. Canto trasformando questo respiro in suono, suono che a sua volta dà forma ai contenuti dell'anima”

Ian Magilton è membro fondatore del Roy Hart Theatre e presidente del Centre Artistique International Roy Hart Theatre, in Francia.
Attore e regista di fama internazionale, interessato al legame tra musica e teatro.

Del suo lavoro Ian dice: - Lavoro per essere il più aderente possibile a me stesso, e ci sono momenti in cui questo incontro è reale, in quel momento “sono”. Il coinvolgimento totale del corpo è essenziale per raggiungere questi momenti, che accadono mentre canto e recito, per questo lavoro nel teatro. Durante i seminari cerco di dare agli allievi l'opportunità di toccare sé stessi. Sono convinto che quando il cantante o l'attore riesce a toccare e incontrare sé stesso, lo spettatore sarà toccato. E' il gioco del teatro.

Il tema del seminario è la relazione tra musica e anima. L'obiettivo è connetterci con chi siamo, attraverso la voce.
E' un 'opportunità per esplorare cosa rappresenta la musica all'interno della tua voce e come far emergere la tua musica.
Assapora il piacere di cantare te stesso e di mintohotel replica watches cantare insieme agli altri!

Il seminario prevede una preparazione fisica e vocale, lezioni individuali e improvvisazione di gruppo.
Si articola in esercizi della tradizione del Roy Hart Theatre di uso della voce come strumento primario per esplorare sé stessi e sviluppare le proprie potenzialità vocali: estensione, ampiezza, colori e soprattutto corpo della voce; esercizi fisici per aprire il corpo e permettere alla voce di incorporarsi; esercizi di respirazione, di ascolto degli altri e di sé stessi; di ricerca delle fonti dinamiche dei cheap vacheron constantin replica suoni.



11-12-13 MARZO
martedì 11 h 13.15-17.15
mercoledì 12 e giovedì 13 h 16.00
Presso Ritmi di Teatro Via della Stazione Tuscolana 27 - Roma

Seminario chiuso ad un massimo di 12 partecipanti (in ordine di prenotazione), entro il 1 Marzo

Costo: 150 euro

Per info:

calcagni.mara@gmail.com
Tel. 347 2546 867

Per iscrizioni mandare una mail con il form allegato a: calcagni.mara@gmail.com

 

Voce, teatro e coca-cola. Intervista a Ian Magilton

E-mailPDF
Ian Magilton

Ian Magilton

La voce è lo strumento più accessibile della comunicazione umana. E’ il veicolo attraverso il quale ciascun individuo può modellare tutte le sue identità, artisticamente, intellettualmente e con il cuore. Non è solo uno strumento per parlare, ma è la fonte di moltissime altre espressioni, dal canto puro ai suoni più strani e primitivi. Questo è il punto di partenza del lavoro praticato nel Château di Malérargues, nel sud della Francia, dove ha sede il  .

Il fondatore di quello che noi oggi chiamiamo il metodo del Roy Hart Theatre fu Alfred Wolfsohn, soldato pioniere della ricerca vocale nel periodo della Prima Guerra Mondiale. La curiosità nacque a partire dal disgusto che lui stesso provava per le voci diffuse meccanicamente nella Berlino di Hitler. Si rese conto di come la voce potesse essere trasformata, resa diversa e utilizzata come spunto per un maggiore sviluppo delle capacità umane. L’obiettivo di Wolfsohn era trovare una voce aperta, senza legami, che fosse strumento di espressione e liberazione.

Roy Hart era un attore di talento, originario del Sud Africa. L'incontro con Alfred Wolfsohn nell’Inghilterra del dopoguerra cambiò il suo approccio al teatro e alla vita. Fu allievo di Wolfsohn per molti anni e proseguì il suo lavoro dopo la morte. L’eccezionale estensione vocale di Roy Hart e il suo virtuosismo condussero alcuni compositori (Karlheinz Stockhausen, Hans Werner Henze, Maxwell Davies...) a scrivere delle opere musicali specifiche per lui e per la sua magnifica voce. Il genio e il carisma di Roy Hart lo portarono a fondare il Roy Hart Theatre nel 1968 e a proseguire e sviluppare il suo metodo, che è ancora oggi praticato ed insegnato non solo a Malérargues ma in giro nel mondo. 

Ian Magilton, attualmente presidente del Centre Artistique International Roy Hart, fondato nel 1974, è uno dei pochi insegnanti riconosciuti al mondo di questa metodologia. Si trova in Italia poche volte all’anno. Lo incontriamo a Milano, ospite dello Spazio Scimmie Nude, con il quale ha iniziato un sodalizio artistico che dura da due anni.

Roy Hart e Alfred Wolfsohn

Roy Hart e Alfred Wolfsohn (photo: roy-hart-theatre.com)

Come è nato il tuo incontro con Roy Hart?
Ero uno studente della Chelsea School of Arts, impegnato nella ricerca della verità, la verità artistica, intendo. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovarla; sebbene avessi molti spunti non arrivavo mai ad una conclusione interessante. Così ho conosciuto Vivienne Young [grande amica di Roy Hart, che morì insieme a lui in un fatale incidente d’auto nel 1975, ndr] che mi ha introdotto al suo lavoro. 
Ho incontrato 25 persone “molto strane”, che mi hanno fatto capire che la ‘mia’ verità non l’avrei trovata nelle ‘fine arts’, ma nel teatro, dove non c’è una verità assoluta ma tanti momenti di verità, che includono tutto. Quello che io cercavo era qualcosa di eterno, ma l’eternità non esiste. Esiste solo il qui ed ora. 

Nel 1974, un anno prima della scomparsa di Roy Hart, è nato il Centre Artistique International Roy Hart nel sud della Francia. Prima eravate a Londra, dove il Roy Hart Theatre era stato fondato nel '68. Vi dedicavate alla ricerca pura o avete anche prodotto degli spettacoli?
Quando abbiamo fondato il centro eravamo 47 persone, tutte accomunate dall’entusiasmo. Il punto di partenza dello studio era che tutti hanno una voce dentro di sé, che va scoperta. Ed è quello che pensiamo ancora oggi: non si tratta di cercare bravi cantanti né artisti con la voce melodiosa, ma di scoprire cosa c’è dentro di noi e tirarlo fuori. Un’esperienza di studio che non resti fine a se stessa. Per questo abbiamo iniziato a lavorare su una produzione, “L’economiste”, una rilettura di “Café de Flora” di Béhar’s. La ricerca e lo studio sono infatti fondamentali nella vita di un artista, ma prima o poi bisogna verificare quello che si è trovato sulla scena, altrimenti i risultati dell’indagine non servono a nessuno.

Il pubblico ha capito il vostro lavoro? E come è stato accolto?
E’ stato strano, come in tutti i lavori di ricerca teatrale. A Londra non amavano il nostro modo di lavorare, probabilmente non lo capiscono ancora oggi. Sono state scritte recensioni feroci sui nostri spettacoli. Invece, quando siamo andati a Malérargues, un paesino minuscolo nel sud della Francia, il nostro approccio è piaciuto talmente tanto che il prete del paese ci ha proposto di fare un lavoro per lui e la sua chiesa protestante. Aveva amato il modo moderno con cui avevamo cercato di rendere in un prodotto artistico unico la musica e le parole dell’”Economiste”. Ci ha chiesto di fare la stessa cosa per lui con il primo capitolo della Genesi. Avendo a disposizione un grandissimo coro è stata un’esperienza splendida, che è servita anche per introdurci alla comunità locale.

E in Italia?
Il primo progetto che ho portato in Italia, al quale ho lavorato molto, è stato “I pagliacci” di Leoncavallo. In Italia c’è uno strano modo di intendere l’opera. Se non è seria, non può essere opera. Quindi, per quanto il nostro spettacolo fosse estremamente divertente, gli italiani lo seguivano, lo apprezzavano, ma avevano sempre un’aria serissima. Quando cantavo che “il teatro e la vita non sono la stessa cosa” mi guardavano con un’aria stranita.

Acquista biglietti su viagogo! Facile, veloce e 100% garantito

Cosa pensi del teatro di ricerca in generale e, in particolare, di come viene affrontato in Italia?
Penso che molti lo intendano come una cosa molto seria. Se nello spettacolo si soffre, si urla e si sta male, allora quella è ricerca. Non si pensa mai attraverso un’altra prospettiva. Stranisce vedere qualcuno che ride, e ci si stranisce a ridere di fronte ad un lavoro che è considerato di teatro sperimentale. Ma è assurdo! L’arte fa ridere, deve far ridere, non può solo distruggere l’umore. 

Roy Hart Theatre

Il Roy Hart Theatre negli anni '70 (photo: roy-hart-theatre.com)

Ci racconti un aneddoto tutto italiano?
Una volta mi sono ritrovato a Torino per una replica dei “Pagliacci”. Il pubblico torinese è molto difficile, sono serissimi e per certi versi molto chiusi. Ero in scena con questo spettacolo, che voleva essere estremamente divertente (cosa c’è di più divertente dei pagliacci?, mi dicevo). Eppure nessuno rideva mai, pur stando tutti molto concentrati e attenti. Ad un certo punto, il vero momento di crisi dello spettacolo, il momento di massima tensione tragica, quello nel quale davvero c’era da commuoversi, ho detto: “O turpe donna!” e tutta la sala è scoppiata in una sonora risata, l’unica della serata. Non capivo perché quella reazione in quel momento. L’ho capito solo dopo, quando ho scoperto che avevano capito tutti ‘o torpedone’.

Stai collaborando con le Scimmie Nude, compagnia di ricerca milanese, per la loro nuova produzione “Perversioni”. C’è differenza tra gli approcci artistici? 

E’ un modo molto simile di lavorare, sebbene non si parli la stessa lingua. Si parla però di teatro fisico, perché il teatro è fisico. Non si può prescindere dal corpo. La differenza sta nel fatto che io parto direttamente dalla voce, e loro dal corpo. Ma il punto di arrivo è lo stesso. Ormai in teatro si vedono performance, non spettacoli, dove alle immagini è affidato tutto: non c’è corpo, non c’è tensione, non c’è teatro. Come si possono dire delle cose senza che siano collegate alla voce pura che nasce dal cuore? La musica e la musicalità sono alla base di tutto. Qui c’è voglia di cambiare e di aprirsi e, soprattutto, di incontrare il pubblico, che è sempre il primo referente di chi fa teatro. Studiare, collaborare e far incontrare realtà diverse è alla base della crescita artistica. Per questo sono contento di lavorare con le Scimmie Nude e Gaddo Bagnoli, che mi ha affidato il suo “baby” (lo spettacolo in produzione) con umiltà. Non è una cosa che molti fanno, e io la apprezzo.

Tutti dicono che il teatro sta vivendo una crisi immensa. Ma, in fondo, non è sempre sempre stato in crisi?
Il teatro è in crisi da circa vent'anni; adesso è un po’ più in crisi di prima. Le nuove tecnologie, è banale dirlo, hanno cambiato tutto. Io sto aspettando che il pubblico un giorno si ribelli e chieda che torni il rapporto umano tra le persone. Comunichiamo attraverso mezzi, non ci si guarda mai negli occhi, c’è una distanza incolmabile tra di noi. Il teatro invece ci permette ancora di essere vicini, e non dobbiamo permettere che diventi una questione elitaria, perché quest’arte può far del bene a tutti.

Che consigli daresti a giovani attori o compagnie che stanno cercando di sopravvivere in questa fase così difficile?
“Get out there and kick ass”. Che sta a significare di smetterla di stare nel proprio angolino, rimboccarsi le maniche e non pensare che il teatro sia una cosa per pochi. C’è molto snobismo in giro, nei festival si vedono sempre le stesse facce, come se gli altri non avessero nulla da dire. Un tempo non volevo bere la Coca Cola, perché ho sempre odiato quello che rappresenta e tutto il suo mondo. Poi un giorno, mentre ero in Thailandia, ho visto un amico che la utilizzava come noi usiamo il vino, per preparare delle salse e cucinare dei piatti sfiziosi. Per la prima volta ho pensato a questa bibita, che non ho mai amato, in un modo inaspettato. Mi sono reso conto che non avevo mai guardato le cose con una prospettiva diversa e che quello era un mio limite. Ecco cosa dovrebbero fare i giovani o anche i non più giovani. Guardare oltre, scoprire cosa c’è di nuovo, non arroccarsi sulle proprie convinzioni senza lasciare spazio agli altri. Altrimenti non c’è divertimento. E, soprattutto, non si cresce mai.